Deportazione politica

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Nel corso dei venti mesi d’occupazione militare tedesca i deportati dal Parmense nei Konzentrationslager (KL) furono oltre 167; il 79% di coloro di cui si conosce la sorte sarebbe morto durante la detenzione o nelle settimane immediatamente successive alla liberazione. Osservando l’età dei deportati non si può fare a meno di rilevare l’alta percentuale di uomini non più giovani: il 57% aveva più di 35 anni e il 17% era nato prima del 1900. Furono arrestate anche due donne di Parma, madre e figlia, provenienti della famiglia antifascista Polizzi dell'Oltretorrente, attive nella Resistenza civile. Esse furono deportate nel campo di concentramento femminile di Ravensbrück, in territorio tedesco. Un dato che rafforza l’ipotesi che una parte consistente dei deportati fosse composta da civili catturati durante i rastrellamenti e fiancheggiatori della Resistenza armata, vista l’età mediamente più bassa che caratterizzava i partigiani. Ipotesi che trova una qualche conferma nel fatto che molti deportati non risultano appartenenti a formazioni partigiane, sempre stando agli schedari dell’ANED locale. Ben il 43% dei registrati non sembra appartenesse ad una brigata o addirittura non venne schedato come “partigiano”. Si tratta certamente di informazioni parziali che necessitano di ulteriori approfondimenti ma che tendono a indicare una significativa presenza tra i rastrellati poi deportati in quanto “politici” di persone non riconducibili direttamente alle formazioni partigiane.

Saranno però soprattutto i grandi rastrellamenti dell’estate 1944 e dell’inverno 1945, che spazzeranno l’Appennino emiliano, a far assumere alla deportazione verso i KL maggior rilevanza quantitativa. Con l’intervento della Wehrmacht e la rioccupazione temporanea dei paesi e delle valli liberate in precedenza dalle formazioni partigiane, tra il luglio e l’agosto del 1944 un flusso consistente di prigionieri venne fatto discendere dai monti; una parte destinata ad essere trasferita nei campi di concentramento, un’altra in quelli di lavoro nel territorio del Großdeutsches Reich. Se si esclude l’aver distrutto le “zone libere”, l’operazione Wallenstein ebbe un esito sostanzialmente deludente e questo ripropose la necessità di rinnovare la strategia nella “lotta alle bande” ed accrescere le forze militari da impegnare contro l’antifascismo; il compito di contenere il fronte antifascista venne assunto dal comando della Sipo-SD installatosi a Parma sul finire del luglio 1944 mentre l’operazione militare era ancora in corso.

La fine dei grandi rastrellamenti non avrebbe interrotto il flusso di deportati verso il Dulag di Bolzano- Gries ed in seguito verso i KL, soprattutto di Mauthausen e di Flossenbürg. L'ultimo trasporto per il Reich sarebbe partito da Bolzano il 22 marzo 1945, in seguito le interruzioni dei collegamenti ferroviari e stradali avrebbero reso impossibile ulteriori invii. Ciò però non bloccò il fluire di prigionieri antifascisti verso il campo sudtirolese: solo dal Parmense furono almeno 107 i detenuti politici liberati a Bolzano negli ultimi giorni di aprile, tutti catturati nel corso dei primi tre mesi del 1945 e tutti destinati “ad andare a morire in Germania” come era sovente ripetere il capo della SD di Parma al termine degli interrogatori. Ancora il 21 aprile, infatti, dalle carceri di Parma partì un ultimo carico di 26 prigionieri politici catturati nei due mesi precedenti; destinazione il Dulag bolzanino.

Rastrellamenti dell’estate 1944

Dal 30 giugno al 7 luglio 1943, sotto il comando del generale Walter Von Hippel, comandante della contraerea Sud, venne attuata l’operazione “Wallenstein I”, nella quale furono impegnate tra l’altro forze della Festungsbrigade 135, della Flak, della Luftwaffe e della GNR (tra 5 e 6 mila uomini). Compito delle forze tedesche fu di rastrellare la zona tra le strade statali 62 e 63 nella fascia geografica tra Parma e La Spezia, e di chiudere i partigiani in una sacca, formata dalle strade Parma-Aulla-Fivizzano-Passo di Cerreto, dove si trovavano unità di presidio che avrebbero dovuto annientare i partigiani. Lo scopo dell’azione non fu però soltanto la «pacificazione del territorio tra le SS 62 e 63», ma soprattutto «la deportazione di tutta la popolazione maschile tra i 18 e i 55 anni».

I rastrellamenti richiedevano una potente organizzazione di trasporto. Il campo sportivo di Bibbiano fu usato come campo di smistamento e rimase in funzione per tutto il mese di luglio 1944. Il primo luglio incominciarono ad arrivare a Bibbiano autocarri e autobus carichi di uomini rastrellati nel Parmense. Tutti questi uomini, dai 18 ai 55 anni, venivano introdotti alla spicciolata nel campo sportivo e lì rinchiusi. Il numero di persone trattenute nel campo è stato stimato tra 500 e 1.000 al giorno (almeno per il giorno del 1° luglio). Da Bibbiano una parte dei rastrellati doveva partire per Suzzara, come prima tappa verso la Germania (furono poi portati a Verona e da lì verso il Brennero).

I rastrellamenti degli uomini mettevano a disposizione dell’industria tedesca un notevole serbatoio di manodopera in una situazione caratterizzata dall’insuccesso assoluto sia del reclutamento volontario sia del lavoro obbligatorio. Solo il rastrellamento “Wallenstein I” portò ad una cifra assai alta di lavoratori coatti. […] Tra il 1° e il 5 luglio, 2.500 uomini sarebbero stati portati nel campo provvisorio di Bibbiano. 1.050 di questi furono lasciati liberi in quanto lavoratori della Todt o appartenenti al personale di una centrale elettrica. Tra i rilasciati vi furono anche dei vecchi fascisti e un certo numero di sacerdoti. Il numero di deportati in Germania fu di 1.105. Non meno incisivo fu l’effetto dei rastrellamenti effettuati tra il 18 e il 29 luglio 1944.

Rastrellamenti dell’inverno 1945

L’avvio di nuovi rastrellamenti, approfittando delle condizioni atmosferiche e le difficili condizioni del terreno ricoperto da una folta coltre di neve che rendeva gli spostamenti difficili e facilmente individuabili, diventava urgente per i comandi tedeschi. La montagna andava nuovamente bonificata dai partigiani e da tutti coloro che potevano rappresentare una minaccia per le operazioni militari tedesche e fasciste. Nei mesi a cavallo tra il 1944 e il 1945 l’Appennino emiliano visse perciò una nuova ondata di rastrellamenti che portarono con sé violenza e distruzione, morti e deportati. L’ultima decade di novembre truppe tedesche e fasciste, circa 2.000 uomini in tutto, invasero la parte orientale dell’Appennino parmense; l'azione, denominata “Regenwetter”, attraversò i comuni di Cornilgio, Monchio delle Corti e passò al setaccio i pendii del monte Caio dove si erano insediate diverse formazioni partigiane. Molte le perdite partigiane e numerosi gli arrestati, destinati alla deportazione. Conclusasi la prima operazione, partì subito una seconda “Bandenbekämpfungswoche” contro le aree non toccate dalle grandi operazioni che erano allora in corso”. Infine in gennaio presero avvio quelli che sarebbero stati gli ultimi rastrellamenti condotti in forze sull’Appennino emiliano, tra essi l’operazione “Totila”, indicata nei documenti tedeschi come una “grande operazione di rastrellamento”, tesa a colpire e infliggere il più alto numero di perdite (uccisi e deportati) alle brigate partigiane insediate nelle valli che si trovavano a cavallo tra le province di Parma e di Piacenza e in quelle che si sviluppavano oltre il crinale appenninico in Liguria e nel pontremolese.

Eseguendo un ordine dello stato maggiore della 14ª armata (Armeeoberkommando 14), a cui spettava dirigere la lotta contro le bande nel settore occidentale del fronte “con grande impiego di uomini”, la 162a divisione di fanteria (nota come “Turk”), affiancata da reparti da montagna tedeschi e fascisti, questi ultimi appartenenti alle divisioni “Italia” e “San Marco”, attaccarono le formazioni partigiane ai primi di gennaio. Obiettivo dell’azione eliminare i “raggruppamenti di bande che, grazie all’efficacia delle loro imprese, non sono state ancora catturate”. Il piano d’attacco preparato dal comando della 14ª armata prevedeva che “tutti i complici delle bande e tutte le persone sospette di sesso maschile devono essere fatte uscire dalla zona liberata militarmente” e avviate verso i campi di concentramento nell’Europa sotto il controllo del Reich.

Sipo-SD

L’esito sostanzialmente deludente dell’operazione Wallenstein, se si esclude l’aver distrutto le “zone libere”, ripropose la necessità di rinnovare la strategia nella “lotta alle bande” ed accrescere le forze militari da impegnare contro l’antifascismo; Il compito di contenere il fronte antifascista venne assunto dal comando della Sipo-SD (Sicherheitspolizei-Sicherheitsdienst) installatosi a Parma sul finire del luglio 1944 mentre la Wallenstein era ancora in corso. Diretta dal capitano della SS e della polizia Otto Alberti, che aveva tra i suoi più stretti collaboratori il tenente della SS e della polizia Herbert Andorfer la struttura si insediò a palazzo Rolli, nei pressi della casina del Petitot, e si impegnò immediatamente a costruire una rete di collaborazioni e di infiltrazioni negli organismi politici e militari della Resistenza. In quella fase prese avvio anche l’attività della neonata Brigata nera, anch’essa con compiti di polizia e di infiltrazione nel movimento antifascista locale.

Nel corso di agosto e nei mesi seguenti le celle di entrambi i corpi di polizia si riempirono di antifascisti, loro congiunti e sospettati fiancheggiatori; nelle carceri di San Francesco e in Cittadella vennero ammassati coloro che finirono nelle mani dei nazifascisti e tra interrogatori e torture attesero la loro sorte: la fucilazione – solo in alcuni casi per rappresaglia- o la deportazione nei lager. Solo per alcuni l’uscita dalla detenzione aprì le porte alla libertà, in seguito allo scambio di prigionieri. Sul finire d’agosto Parma assistette alla prima ondata di fucilazioni e di stragi di detenuti antifascisti nelle sue vie e nelle sue piazze: tra il 30 agosto e il 1 settembre 13 antifascisti vennero fucilati in tre episodi distinti, il più sanguinoso in piazza Garibaldi la notte tra il 31 agosto e il 1 settembre, quando furono uccisi 7 antifascisti prelevati dalle celle della Brigata nera come gesto di rappresaglia per l’uccisione di due suoi membri; gli altri due eccidi servirono solo per affermare il potere della nuova milizia neofascista in città