Deportazione razziale e Shoah

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La comunità ebraica di Parma

La mobilità, una caratteristica che gli ebrei fecero propria per necessità nel corso dei secoli, spesso forzata da eventi minacciosi, portò alcuni gruppi a fermarsi a Parma nel XIV secolo.

Non è ancora stata studiata in tutti i suoi aspetti la storia delle comunità di Parma e della provincia; possiamo solo dire che esse non furono popolose e che, in complesso, gli atti di aperta ostilità nei loro confronti furono rari e non tali da pregiudicare la convivenza con i cristiani, almeno fino a quando non iniziarono le espulsioni.

Dopo il 1555, quando la Bolla di papa Paolo IV impose l’istituzione del ghetto, i Farnese scelsero una diversa, ma pur sempre restrittiva, soluzione: gli ebrei dovevano andarsene da Parma e Piacenza e trasferirsi in sedici località del ducato, dove avrebbero potuto aprire nuovi banchi di prestito. Dall’ultimo scorcio del Cinquecento fino alla fine del Settecento, secondo l’opinione degli storici, nessun ebreo risiedette a Parma. Gli israeliti, nel periodo considerato, potevano entrare in città per un solo giorno. Nella seconda metà del Settecento, nel ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, gli israeliti presenti appartenevano in maggioranza alla piccola borghesia di campagna. Le conquiste della rivoluzione francese e, fra queste, l’uguaglianza fra tutti i cittadini, furono portate anche in Italia da Napoleone; a Parma l’amministratore generale Moreau de Saint Mery tolse, nel 1803, ogni divieto di residenza per gli ebrei. Gli israeliti cominciarono gradualmente a lasciare la provincia e a insediarsi in città, dove maggiori erano le opportunità economiche e culturali. Nel 1866 la comunità inaugurò la sinagoga di vicolo Cervi, in cui si officiava con il rito italiano. In questo periodo e fino ai primi anni del nuovo secolo i componenti della comunità ebraica di Parma e provincia erano circa settecento, poi il loro numero cominciò a decrescere. Alcuni di loro parteciparono alle vicende storiche che portarono alla formazione del Regno d’Italia. Nonostante la sua esiguità, la comunità di Parma seppe esprimere una varietà di fermenti culturali che culminarono nella pubblicazione del primo giornale ebraico italiano, la “Rivista Israelitica. Giornale di Morale, Culto, Letteratura e Varietà”, pubblicato tra il 1845 e il 1848.

Nei primi decenni del Novecento continuò il processo di integrazione degli israeliti italiani che si identificarono sempre di più con la causa nazionale. La situazione iniziò a cambiare con l’avvento del fascismo

Deportazione razziale e Shoah

La Comunità ebraica di Parma contava, nell’autunno del 1938, centrotrentaquattro membri.

Solo alcune famiglie israelite abitavano ancora nelle località della Bassa parmense dove storicamente si erano radicate, ossia Busseto, Soragna e Fidenza. Tre comuni dell’Appennino, Borgo Val di Taro, Neviano degli Arduini e Pellegrino Parmense, ospitavano ciascuno una famiglia di ebrei. Infine, vivevano rispettivamente a Golese e a San Pancrazio due famiglie di agricoltori di religione ebraica. Il censimento effettuato nel 1938 nel comune di Parma e in quelli della provincia rivela un forte calo della popolazione ebraica parmense rispetto ai secoli passati. Dei centrotrentaquattro ebrei del centro urbano, sessantadue erano donne e settantadue uomini.

Tra di loro, sei erano bambini in età scolare e dodici erano ragazzi iscritti alle scuole superiori e all’università. La maggioranza dei membri della comunità cittadina apparteneva alla borghesia, come risulta, oltre che dalle professioni e dai mestieri esercitati, anche dal fatto che abitassero in quartieri residenziali.

Con la promulgazione delle leggi razziali anche gli ebrei di Parma furono allontanati dalle scuole pubbliche, dalle università, dagli impieghi statali, dagli incarichi politici; fu loro vietato di esercitare ogni libera professione, di possedere beni mobili e immobili, di assumere domestici “ariani”. Il “Corriere Emiliano”, in un articolo del 13 ottobre, dava notizia dell’espulsione dall’Università di Parma di quattro professori ebrei. Alcuni studenti furono costretti a trasferirsi alla scuola ebraica di Milano.

Cinque giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il Ministero dell’Interno disponeva il rastrellamento degli ebrei stranieri, ordinandone l’internamento in campi di concentramento o il confino in numerose località italiane.

La deportazione dai territori occupati colpì intere famiglie di ebrei polacchi, ungheresi, olandesi, austriaci, tedeschi, serbi e croati che, fuggiti dai luoghi controllati dai nazisti o dagli ustascia, avevano cercato rifugio nelle zone italiane. Un numero imprecisato di loro venne confinato anche in una ventina di comuni del Parmense, dove la popolazione locale fu generalmente ospitale nei loro confronti.

Con l’occupazione tedesca e la costituzione della Repubblica sociale italiana anche gli israeliti di nazionalità italiana dovevano essere inviati in campi di concentramento e tutti i loro beni confiscati a favore della Rsi. Con l’ordinanza di polizia del 3 dicembre 1943, il capo della Provincia di Parma disponeva che la Cassa di Risparmio si occupasse del ritiro e della gestione del denaro e dei valori degli israeliti locali sotto il controllo dell’Intendenza di Finanza cittadina. Intanto, per l’internamento degli ebrei venivano utilizzati i seguenti campi: il castello di Scipione (Salsomaggiore Terme); il campo ubicato nel castello di Montechiarugolo; gli albergo “Terme” a Monticelli Terme.

Per sfuggire al pericolo di essere arrestati alcuni ebrei di Parma decisero di espatriare: tra questi Gualtiero Almansi, il rabbino Enrico Della Pergola, che aveva accettato di fuggire credendo i figli e la moglie in salvo, e l’avvocato Aristide Foà, repubblicano antifascista. Tra coloro che si trovarono al sicuro in Svizzera ci furono anche la famiglia Vigevani, i giovani Bassani, l’avvocato Ottolenghi, i coniugi Muggia e i Levi, questi ultimi privati del capofamiglia, arrestato il giorno prima della fuga, deportato ad Auschwitz e successivamente a Mauthausen, dove morì nel marzo 1945. Anche nel Parmense non mancò chi diede aiuti concreti agli ebrei perseguitati, tra questi Pellegrino Riccardi, pretore a Fornovo Taro durante la seconda guerra mondiale, rappresentante del Comitato di liberazione nazionale di Parma, che organizzò l’espatrio di molte persone, fornendo loro documenti falsi.

Intanto, venivano sequestrati gli arredi della sinagoga di Parma, depositati presso il magazzino di un mobiliere. Gli oggetti sacri erano stati in precedenza nascosti presso la Biblioteca Palatina, da cui sarebbero stati recuperati alla fine della guerra.

Il primo ebreo arrestato a Parma fu Giorgio Foà: prelevato dal posto di lavoro, in piazza Garibaldi, a metà settembre, scomparve. Di lui non si seppe più nulla. Non si ha documentazione nemmeno in relazione alle sorelle Libera e Fortunata Levi, due delle cinque figlie di Davide Levi. Le due donne, ultrasessantenni, furono prelevate con la forza dalla loro casa in via Nino Bixio, nell’estate del ’44. Le loro tracce si persero nel campo di transito di Fossoli (Carpi-Modena), da cui furono deportate ad Auschwitz, in Polonia.

Settantaquattro furono gli ebrei deportati dal Parmense, sia italiani sia stranieri. Delle ventitré vittime dello sterminio, sei furono bambini e la loro storia è entrata nella memoria collettiva di Parma.

Infine, non è a tutt’oggi noto il numero degli ebrei che presero parte alla lotta di liberazione. La documentazione in nostro possesso fornisce i dati di alcuni israeliti partigiani: Remo Coen, Cesare Bassani, Aldo Melli, Haim Monache.

I bambini di Parma nel lager di Auschwitz

“Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto” (E. Wiesel, La notte)

La storia raccontata ha inizio nel 1938, quando il governo fascista emanò leggi che colpirono i diritti di cittadinanza degli ebrei in Italia, e si concluse nell’aprile 1944, con la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz di buona parte della comunità ebraica di Parma. Le vicende riguardano in particolare un gruppo di bambini, protagonisti, loro malgrado, di quella tragica vicenda.

Donato e Cesare della Pergola (rispettivamente nati nel 1932 nel 1934), figli del rabbino Enrico e di Emilia Camerini, il 12 dicembre 1943 furono catturati in località Reno di Tizzano Val Parma e condotti con la madre, le zie e la nonna nel campo di concentramento di Monticelli Terme, dove rimasero tre mesi, prima di essere trasportati a Fossoli. Liliana (classe 1934) e Luciano Fano (classe 1932) erano nati a Pellegrino Parmense dove i loro genitori, Ermanno e Giorgina Padova, si erano trasferiti nel 1931. L’intera famiglia, compresi il piccolo Roberto nato nel 1942 e i due nonni, fu prelevata il 7 dicembre 1943 dalla casa di Via Imbriani. I due nonni –gli unici a non essere deportati- furono rinchiusi nel carcere di San Francesco, il padre a Scipione e la madre coi figli nel campo di Monticelli Terme. Roberto Bachi (classe 1930) e il padre, rifugiati a Torrechiara (Langhirano), furono arrestati il 16 ottobre 1943 da una pattuglia di SS e trasferiti prima a Salsomaggiore Terme poi nel carcere di San Vittore a Milano. Nessuno di loro tornò da Auschwitz.

Oggi di loro rimangono le lapidi al cimitero della Villetta, nel parco intitolato ai fratelli Fano e Della Pergola. Rimangono i documenti che hanno permesso la ricostruzione del loro arresto e della loro deportazione.

Luoghi di internamento nel parmense

Gli alberghi "Terme" e "Bagni" a Monticelli Terme

La costituzione della Repubblica sociale italiana, nell’autunno del 1943, aprì una nuova fase nelle vicende dei campi di concentramento. Nel Parmense, dopo la chiusura di Montechiarugolo e lo svuotamento di Scipione per il trasferimento, la fuga o la deportazione degli internati, si inaugurò una nuova fase repressiva, in particolare nei confronti dei detenuti politici e degli ebrei. Nelle intenzioni delle autorità italiane e tedesche, la funzione dei campi doveva trasformarsi da “isolamento”, com’era stato fino all’8 settembre 1943, a “raccolta”.

Ad essere rinchiusi nei due campi attivati tra il novembre e il dicembre dello stesso anno furono in prevalenza antifascisti, ebrei jugoslavi già deportati in Italia nella fase precedente e confinati nella provincia, ed ebrei italiani. Vennero esclusi, però, i malati gravi e gli anziani che avessero superato i 70 anni. Il vice commissario federale del Partito fascista repubblicano di Parma, Guglielmo Ferri, in una circolare del 3 dicembre 1943 diretta ai commissari dei fasci repubblicani della provincia, disponeva che venissero riattivati campi di concentramento provinciali. In verità, egli non faceva altro che trasmettere le disposizioni contenute nell’ordine di Polizia n. 5 del 30 novembre 1943, emanato dal Ministro dell’Interno della Repubblica sociale, Guido Buffarini Guidi. Egli notificava che era necessario concentrare gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati; si disponeva, inoltre, che gli uomini venissero «concentrati a Scipione di Salsomaggiore e le donne e i bambini negli Alberghi ‘Ristorante Terme’ e ‘Bagni’ posti in Monticelli Terme di Montechiarugolo. Il destino di chi passava per questi due campi era tragicamente segnato.


Il castello di Montechiarugolo

Il campo ubicato nel castello di Montechiarugolo era stato aperto nell’estate del 1940 per essere chiuso all’indomani dell’8 settembre 1943.

In agosto, a poco più di un mese dalla sua apertura, nel castello gli internati erano già 62. In prevalenza si trattava di sudditi britannici e francesi, presenti sul suolo italiano allo scoppio della guerra, di “apolidi ex-jugoslavi”, già cittadini dei territori occupati dall’Italia. Giunsero, nell’autunno dello stesso anno, i prigionieri del campo di concentramento di Scipione (Salsomaggiore Terme) che era stato chiuso. Questo trasferimento provocò un aumento cospicuo degli internati che, come si legge in una lettera del direttore del campo al Questore di Parma, divennero in breve circa 118, «di cui 79 Britannici, 28 Francesi e i rimanenti di altre nazionalità». Nell’aprile del 1941 vennero trasferiti da Venezia, dove si presume che fossero stati fermati, 58 marittimi jugoslavi nativi della Dalmazia

Con questi ultimi arrivi, alla metà di luglio, si arrivò a 140 persone, più della metà del numero massimo previsto per quel campo. Alle difficoltà causate dal sovraffollamento, si aggiunse l’assenza di qualsiasi adattamento dei locali all’uso previsto, nonché i mancati interventi di manutenzione durante i tre anni in cui funzionò come campo di concentramento. L’attenzione delle autorità fu rivolta più alle garanzie di sicurezza che alle necessarie modifiche che garantissero le condizioni minime di sopravvivenza.

La vicenda di Montechiarugolo si concluse, nei giorni successivi all’8 settembre 1943, con l’arresto del direttore, di agenti e degli internati rimasti, dopo che i tedeschi avevano preso possesso del campo. I prigionieri vennero successivamente trasferiti nella scuola elementare di Santa Croce nella provincia di Reggio Emilia, dove rimasero fino al dicembre dello stesso anno.


Il castello di Scipione

Il campo di concentramento di Scipione (Salsomaggiore Terme), istituito nell’estate del 1940 per i cittadini dei paesi nemici e per i prigionieri politici, chiuso temporaneamente, fu poi in funzione fino alla Liberazione. Il perimetro entro il quale gli internati potevano circolare non rispondeva alle esigenze di sicurezza e di isolamento, volute dalla direzione generale di pubblica sicurezza. La decisione di riaprire il campo di Scipione dopo la chiusura temporanea si inserisce nel quadro delle misure repressive prese contro le popolazioni jugoslave, per scoraggiare la resistenza. Si rendeva necessario, in questo senso, allestire frettolosamente nuovi spazi per rinchiudervi i sempre più numerosi deportati, sloveni e dalmati. Dalla riapertura del castello, avvenuta nell’estate 1942, all’8 settembre 1943, il numero degli internati oscillò tra i 140 e i 160 deportati, con la punta massima di 173 nel luglio dello stesso anno. L’armistizio e l’arrivo delle truppe tedesche colsero di sorpresa sia i prigionieri sia le autorità del campo, certamente non informate dell’evoluzione degli eventi. I giorni seguenti furono giorni di paura per gli uomini rinchiusi nel castello, giunti da qualche mese dal campo di Lipari, ormai stremati dalle difficili condizioni in cui erano vissuti nei vari campi italiani.

Durante i primi giorni dopo l’armistizio, la vita del campo fu segnata dai numerosi assalti al recinto da parte dei detenuti terrorizzati dalla presenza delle truppe tedesche. Oltre la metà di loro cercò di fuggire, cogliendo la sorveglianza impreparata. Gli evasi risultarono essere 45. Per i restanti, «il locale comando germanico, stanziato negli alberghi Porro e Valentino», stabilì che per quanto riguardava i prigionieri croati, questi potessero raggiungere il loro paese. 28 di loro decisero di rimanere, 93 partirono. Molto più probabilmente il viaggio che fecero gli ex-internati di Scipione dalla stazione ferroviaria di Salsomaggiore li condusse in Germania.

Il campo venne ben presto svuotato; in breve, avrebbe ripreso la sua funzione ma come luogo di deportazione ebraica verso i campi di sterminio nazisti.