Resistenza

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La nascita del CLN di Parma

La mattina del 9 settembre i dirigenti parmensi del Partito comunista, unico a disporre in quel momento di una struttura clandestina efficiente, si erano riuniti a Villa Braga in località Mariano. Al termine della riunione venne deciso di proseguire nella costruzione di una rete clandestina possibilmente unitaria che coinvolgesse le altre forze politiche antifasciste nei preparativi per una eventuale lotta armata contro i tedeschi. Il Comitato d’Azione Antifascista composto da comunisti, socialisti e cattolici e formatosi nel 1942 si era sciolto al termine di una riunione avvenuta la notte precedente.

A Villa Braga furono presi anche i primi provvedimenti necessari per rendere operativa l’organizzazione clandestina: raccolta di armi, soldi, viveri, aiuto ai soldati sbandati, ai prigionieri alleati fuggiti dal campo di prigionia PG 49 di Fontanellato e ai ricercati dai tedeschi, collegamenti col centro nazionale dell’antifascismo organizzato.

La scelta del PCI di accelerare i tempi non ostacolò la ripresa dei contatti con gli altri partiti e nello studio di Giuseppe Micheli, notaio, ministro, deputato, dirigente di spicco del Partito popolare in età prefascista ed esponente dell’antifascismo Parmense, il 15 ottobre venne costituito il CLN di Parma. Comprendeva comunisti, socialisti, democristiani, repubblicani e membri del Partito d’Azione

Inizia la lotta partigiana

Nel tardo autunno del 1943 le basi per l’organizzazione della lotta armata e non armata contro i fascisti e i tedeschi erano a buon punto e sui monti si stavano formando le prime bande partigiane. Nell’inverno 1943-1944 la Resistenza parmense disponeva di 350 combattenti, inquadrati nei primi nuclei che si erano insediati principalmente nelle valli a Ovest della strada della Cisa (i distaccamenti “Picelli” in alta Val Noveglia e “Betti” a Varsi, il gruppo “Penna” tra Bedonia e l’alta Val Ceno, la banda “Beretta” intorno ad Albareto), mentre un solo distaccamento (il “Griffith”) era attivo nella zona a Est del Passo della Cisa.

Il primo scontro a fuoco avvenne intorno ad Osacca, in val Noveglia, il giorno di Natale del 1943. Una ventina tra renitenti e partigiani - giovani di Parma e di Casalmaggiore e militari sbandati – respinse una puntata della Guardia Nazionale Repubblicana, che stava rastrellando la zona. Fu un piccolo ma significativo episodio: per la prima volta i “ribelli” non si erano sottratti allo scontro armato, addirittura obbligarono i reparti fascisti a ripiegare, respinti dal fuoco partigiano; il lavoro di preparazione cominciava a produrre frutti.

Le formazioni partigiane erano comunque ancora troppo deboli per affrontare in combattimento unità militari tedesche e dovevano quindi limitarsi a compiere colpi di mano ed attentati contro sedi isolate delle milizie della Rsi o contro esponenti politici del fascismo repubblicano. Iniziavano le prime vendette e rappresaglie fasciste contro cittadini e antifascisti, come nel caso dell’uccisione di Tommaso Barbieri, Ercole Mason, Emmo Valla, avvenuta a Parma il 1° febbraio 1944, in seguito ad una presunta e mai provata uccisione di un giovane militante fascista.

L’episodio che allarmò i tedeschi, convincendoli che fosse ormai giunto il momento di intervenire contro la guerriglia partigiana, avvenne il 12 marzo 1944 lungo la linea ferroviaria Parma-La Spezia, quando i partigiani guidati dal comandante “Betti” attaccarono un treno scortato da militari della X.a Mas.

Circa un mese dopo, invece, furono i tedeschi a colpire con un attacco di sorpresa nella zona del Monte Montagnana, catturando l’intero distaccamento “Griffith”. A questo episodio si legò la protesta delle donne di Parma.

Arrivò anche il primo vero rastrellamento tedesco nella prima settimana di maggio. Reparti della Wehrmacht insieme a reparti della Gnr setacciarono le pendici del Monte Penna catturando numerosi cittadini sospettati di essere partigiani e vennero incendiati gli abitati di Alpe, Setterone, Strepeto.

I Gruppi di Difesa della donna

Nell’autunno del ’43, anche nel territorio parmense iniziò l’organizzazione dei G.D.D. («Gruppi di Difesa della donna» e per l’assistenza ai Combattenti per la libertà), che divennero operativi nella primavera del 1944. Al loro interno si raccolsero donne di tutti gli orientamenti politici, nell’ottica della mobilitazione femminile di massa. I ruoli che esse ricoprirono in città, nei paesi e nelle campagne furono innumerevoli, prevalentemente di carattere politico e organizzativo, in particolare nel settore della propaganda e della distribuzione della stampa clandestina. In seguito, dal 1944, alcune di esse chiesero di poter combattere con le armi e salirono in montagna, lottando con coraggio e determinazione. Da questo momento, le donne arrestate furono sottoposte allo stesso trattamento riservato agli uomini. Alcune furono deportate nei campi di concentramento nazisti. Altre, dopo aver subito ogni sorta di violenza, furono uccise, come Ines Bedeschi, originaria di Conselice (Ferrara), che nel Parmense svolse compiti delicati di collegamento tra il Comitato di liberazione, i partiti clandestini e i comandi partigiani regionali. Arrestata nel febbraio del ’45, dopo sevizie ed estenuanti interrogatori, venne fucilata lungo le rive del Po, il 28 marzo dello stesso anno. Fu decorata di medaglia d’oro al valor militare.

Finirono in carcere anche alcune delle donne che organizzarono e parteciparono alla manifestazione per la liberazione di un gruppo di partigiani del distaccamento “Griffith”, della futura 12a Brigata Garibaldi, catturati la notte del 14 aprile, in località Montagnana, nel primo Appennino parmense.

Dallo “sciopero del pane” del 1941 ai “fatti di Montagnana” del 1944 fino alla fine della guerra, le donne di Parma e dei paesi della provincia che combatterono, con le armi e senza armi, nella Resistenza, vissero la lotta come momento di formazione e di presa di coscienza. Una parte di esse continuò, anche nel dopoguerra, l’impegno politico iniziato nei lunghi mesi della Resistenza. Come nel resto del paese, anche qui le donne posero, nella guerra per la liberazione dell’Italia, le basi della lotta per il diritto di voto e per l’emancipazione femminile.

I territori liberi

L’offensiva lanciata dagli Alleati l’11 maggio 1944 costrinse i tedeschi ad abbandonare le posizioni della “Linea Gustav” ed a ripiegare sino ai margini della pianura padana. Il nuovo sistema di difesa predisposto dalla Wehrmacht, la “Linea Gotica”, si attestò sull’Appennino tosco-emiliano tra il golfo di La Spezia e Rimini. Per l’esercito tedesco era essenziale, da un punto di vista militare, il controllo delle vie di comunicazione: in primo luogo, oltre alla Via Emilia, la statale della Cisa n. 62 e la ferrovia Parma-La Spezia. Nel Reggiano, vicino ai confini col Parmense, la statale n. 63 del Cerreto aveva grande importanza. Dall’agosto 1944, quando il fronte si stabilizzò, sul versante tirrenico, a sud di Massa e di Castelnuovo Garfagnana, l’importanza strategica di questo sistema viario divenne ancor più vitale. Le forze tedesche e fasciste vennero quindi disposte in due sistemi di presidi: uno (con reparti tedeschi del Battaglione territoriale 1014) per salvaguardare le linee di comunicazione, con capisaldi a Collecchio, Fornovo, Cassio, Borgotaro e Berceto; l’altro (con unità della Gendarmerie e della Feldgendarmerie) a protezione di Parma e delle comunicazioni in pianura, con capisaldi lungo la Via Emilia e la zona pedemontana.

Il progressivo intensificarsi della guerriglia e l’entusiasmo suscitato nei giovani dall’avanzata alleata verso Nord, che faceva presagire una possibile liberazione del paese prima dell’inverno, indusse i comandi ad una maggiore organizzazione delle forze partigiane e all’accelerazione della liberazione dei paesi dell’Appennino. Alla fine dell’estate, le brigate partigiane attive ad Ovest del passo della Cisa contavano circa 1200 combattenti, mentre quelle operanti ad Est ne inquadravano quasi 900. Gli attacchi condotti con successo dai combattenti ai numerosi presidi fascisti, primi fra tutti quelli di Bardi e di Varsi, portarono alla liberazione di ampie zone della montagna e alla costituzione di una zona libera in Val Ceno, il 10 giugno, e di quella del Territorio libero del Taro qualche giorno dopo, favorendo l’autogoverno delle forze della Resistenza oltre che a Borgotaro anche nella zona di Bedonia, Albareto, Compiano e Tornolo.

Anche nel versante orientale dell’Appennino, i distaccamenti partigiani si resero protagonisti di azioni contro numerosi presidi, tra cui quello importante di Corniglio, giungendo a liberare ampie zone dalla presenza fascista senza mai costituire, però, zone libere amministrate dalla Resistenza.

Resistenza e popolazione civile

Nella prima fase organizzativa della Resistenza parmense, a destare le maggiori preoccupazioni dei dirigenti fu la necessità di consolidare il rapporto tra “ribelli” e comunità contadine. Elementi nodali di questa esigenza strategica erano la forzata convivenza di partigiani e contadini, e le rispettive aspirazioni sul territorio: per diritto naturale in quanto ai contadini, insediati da generazioni e legittimi proprietari di beni e prodotti; per necessità in quanto ai partigiani, combattenti per una causa comune. Il grado di reciproca comprensione avrebbe determinato la qualità della convivenza tra i due soggetti. Inizialmente, più che ostilità, in molte località prevalsero indifferenza e incomprensione, che ostacolarono, in particolare tra le comunità contadine, quel processo di coesione tra popolazione e combattenti indispensabile per uno sviluppo efficace della lotta armata. Tra i partigiani, invece, era l’insofferenza verso chi non sembrava comprendere le ragioni comuni della lotta a rallentare l’intesa. Sovente, nei primi mesi di lotta, i distaccamenti scelsero di tenersi lontani dalle case e dai centri abitati, temendo spie e delatori, ma soprattutto avvertendo il sentimento ambiguo che ancora prevaleva nei loro confronti. Questo atteggiamento finiva con l’accrescere, però, il distacco dalle comunità, che rappresentavano in prospettiva la più solida fonte di sopravvivenza.

La popolazione nel suo insieme percepiva i combattenti in modo ambivalente. Conviveva col forte desiderio di aiutare i volontari il timore che la loro permanenza potesse rappresentare un pericolo per la comunità. Se da una parte, infatti, il radicamento nell’ambito locale delle formazioni partigiane agiva come deterrente contro le attività dei saccheggiatori e le prepotenze dei fascisti e dei tedeschi, dall’altra era evidente che avrebbe esposto il territorio ad azioni di rappresaglia. L’ingresso in banda di giovani nativi dei luoghi segnò una svolta che contribuì a legare le formazioni partigiane al territorio. In questa prima fase della Resistenza, per lo meno fino alla costituzione del Comando unico operativo, nel settembre 1944, i rapporti tra partigiani e popolazione rimasero soprattutto incentrati, quindi, sul problema dell’individuazione di possibili forme di convivenza. Alcuni obiettivi comuni favorirono l’intesa: difesa dei renitenti e dei richiamati, possesso e distribuzione del cibo e dei prodotti alimentari disponibili.

Operazioni Wallenstein

La riorganizzazione del movimento partigiano

I rastrellamenti di luglio e agosto erano stati un colpo duro ma avevano insegnato molte cose. Tra queste: l’esigenza di un migliore coordinamento nell’azione delle brigate, una maggiore struttura di tipo militare dei comandi e una maggiore mobilità dei reparti di guerriglia.

A fine agosto comandanti e commissari di brigata della zona Ovest si riunirono a Tiedoli (Borgotaro) alla presenza di due rappresentanti del Comando Militare Nord Emilia ed elessero il Comando unico operativo (CUO) della provincia, che pochi giorni dopo fu riconosciuto anche dalle brigate della zona Est. Comandante unico fu Giacomo di Crollalanza, nome di battaglia “Pablo”, siciliano, 27 anni, tenente dell’esercito, comandante della 31a Brigata Garibaldi. Accanto a lui alcuni uomini che univano al prestigio di partigiani la rappresentatività di diverse tendenze politiche.

Compito del CUO era di coordinare le operazioni militari, organizzare la rete di informazioni e collegamento, sovrintendere alla disciplina e ai contatti via radio con gli Alleati, dirigendo più opportunamente gli avio-lanci. Nello stesso mese di agosto era stato costituito a Parma un altro organismo centrale, il Comando Militare di Piazza, con il compito di dirigere le forze partigiane in città e pianura, in primo luogo i GAP (Gruooi di Azione Patriottica) e le SAP (Squadre di Azione Patriottica) ristrutturate in 5 battaglioni.

Il lungo inverno

Tra la tarda estate e il primo autunno del ’44 le forze partigiane si riorganizzarono, sostenute sempre dalla speranza che gli Alleati sarebbero presto riusciti a sfondare la Linea Gotica ed a penetrare in Val Padana. Per contenere l’attività della guerriglia, tra ottobre e novembre i tedeschi effettuarono ripetute puntate con forti contingenti di truppe, affiancati da militi fascisti ed appoggiati da mezzi blindati, lungo le valli dell’Enza, del Parma e del Baganza. Il 17 ottobre, nell’ambito della “settimana di lotta alle bande” ordinata da Kesselring, un reparto mobile del Centro addestramento antiguerriglia in partenza dalla miniera di Vallezza (Neviano dei Rossi) eseguì una puntata contro il Comando unico della Resistenza parmense riunito a Bosco di Corniglio: caddero il comandante “Pablo” (Giacomo Crollalanza) ed altri quattro membri del comando, oltre al comandante della piazza di Parma presente alla riunione. Eletto un nuovo Comando unico, con a capo “Arta” (Giacomo Ferrari), le 10 brigate che componevano lo schieramento partigiano parmense e che contavano ormai 4000 combattenti si accinsero ad affrontare la stagione invernale. I rigori del clima, la stasi dell’offensiva alleata sulla Linea Gotica, il proclama del generale Alexander che invitava praticamente i partigiani a smobilitare, mettevano le formazioni in una condizione di grave difficoltà. I tedeschi, infatti, avrebbero avuto l’opportunità di distogliere truppe dal fronte e di dirigerle verso le retrovie, iniziando così una vera e propria stagione di terrore. Tra il 20 e il 30 novembre 10.000 uomini, guidati dal 14° Comando d’armata e dal 51° Corpo d’armata di montagna, misero in atto una grande operazione di rastrellamento, sotto il nome in codice “Regenwetter” (tempo piovoso), nella zona a est della Cisa: 4 brigate partigiane vennero circondate e sospinte verso il massiccio del Monte Caio, perdendo circa 100 combattenti e lasciando numerosi prigionieri in mano al nemico. Lo schieramento partigiano in quell’area ne uscì frantumato e profondamente indebolito. Dal 6 al 15 gennaio 1945 un altro grande rastrellamento (operazione “Totila”) investì la zona ad Ovest della statale della Cisa muovendo dal versante appenninico ligure: vi presero parte unità della 162.a Divisione di fanteria “Turk”, i Reggimenti di fanteria n. 303 e n. 329, il Reparto esplorante n. 236, il Battaglione scuola militare alpina “Mittenwald”, due reggimenti di fanteria e il Reparto esplorante della Divisione “Italia”, una compagnia della Divisione San Marco, reparti della Gnr e della Bn. La neve rallentò la manovra tedesca che, questa volta, fu meno efficace. Pur con gravi perdite le brigate riuscirono a filtrare attraverso le linee nemiche e a ricomporsi. L’inverno 1944-1945 non fu meno tragico per i partigiani di città e di pianura. Molti sappisti vennero presi, torturati e uccisi; i collegamenti clandestini cominciarono a saltare, le armi a mancare; la latitanza divenne pressoché impossibile. Il 14 febbraio la polizia tedesca catturava Bruno Longhi, uno dei principali dirigenti della Resistenza, e con lui altri esponenti delle SAP. Longhi morì per le torture il giorno successivo. Nel frattempo molti sappisti ricercati avevano iniziato il trasferimento in montagna; il 22 febbraio anche i superstiti del Comando SAP si recarono in zone controllate dai partigiani. Da allora le SAP fecero parte organica delle formazioni di montagna, formando la 78a Brigata Garibaldi SAP in Val Ceno, la 7a Julia SAP nella zona di Corniglio e la 178a Brigata SAP a Neviano degli Arduini.

Nella Bassa parmense restarono piccoli nuclei che coraggiosamente continuarono la lotta con forti perdite, come i 5 fucilati di Soragna il 19 marzo. In sostanza, alla vigilia dell’attacco generale di aprile, il territorio della pianura era sotto il controllo nazifascista.

Verso la Liberazione

Il 9 aprile 1945 ebbe inizio l’offensiva delle truppe americane della 5a Armata per lo sfondamento del fronte a sud-ovest di Bologna. Il giorno prima i presidi tedeschi in Val Taro e Val Ceno si erano trovati sotto l’attacco delle brigate partigiane dell’Ovest-Cisa. Dopo sanguinosi combattimenti si arrese l’importante guarnigione di Borgotaro e la linea ferroviaria Parma-La Spezia passò sotto il controllo partigiano. Ormai i tedeschi mantenevano a stento solo Berceto e la strada statale della Cisa. In pochi giorni caddero 10 presidi, tra cui quello di Salsomaggiore. Uno degli scontri più duri si ebbe intorno alla caserma del Battaglione scuola antiguerriglia a Ciano d’Enza. Il 20 aprile i comandi militari della Resistenza diedero inizio alle operazioni finali. Mentre i partigiani al di là della Cisa conquistavano gli importanti nodi stradali di Fivizzano e Aulla, le unità tedesche della 232a Divisione di fanteria in ritirata verso il Po si scontravano duramente con alcuni reparti della Divisione “Ricci” che stavano avvinandosi a Parma. Dal 23 il Comando della Polizia di sicurezza-SD aveva lasciato la città, mentre il Comando della MK 1008 cercò un contatto con gli Alleati per patteggiare la resa. Il 25 aprile a San Lazzaro le avanguardie americane si incontrarono alle porte di Parma con unità della Resistenza. Il 26 le formazioni della Divisione “Ricci” circondarono la città e iniziarono il rastrellamento; la caccia ai franchi tiratori fascisti che sparavano dai tetti durò qualche giorno. Mentre avveniva la liberazione di Parma, un’ultima grande battaglia si svolgeva nel tratto della Val Taro compreso tra Fornovo e Collecchio. La 148a Divisione di fanteria e i resti della 90a Divisione granatieri corazzati, seguiti da unità della Divisione “Italia”, erano discesi lungo la statale della Cisa cercando scampo verso il Po e minacciando Parma. Il 25 aprile erano giunti a Fornovo. Toccò ai partigiani delle Divisioni “Val Taro” e “Val Ceno” intercettarli nell’attesa delle truppe alleate. Il 25 e il 26 il ponte sul Taro fu teatro di intensi combattimenti. Il 26, con l’arrivo dei reparti brasiliani inquadrati nella 5a Armata e dotati di mezzi corazzati, i tedeschi si trovarono chiusi in una sacca. Il giorno 29, falliti tutti i tentativi di sfondare l’accerchiamento, il generale Otto Fretter Pico, comandante delle truppe tedesche, si arrese ai plenipotenziari brasiliani. Nell’impianto militare di Ponte Scodogna vennero concentrati i circa 15.000 prigionieri tedeschi catturati. Il 28, intanto, si era arreso a Berceto l’ultimo importante presidio della Wehrmacht.

Fino agli ultimi giorni della ritirata le truppe tedesche compirono gravi atti di violenza contro la popolazione civile: tra il 24 e il 25 a Casaltone e Ravadese avvennero i due maggiori eccidi, con 21 vittime in entrambe le località.